Quando a lavoro si presenta un problema, tendiamo a concentrarci sulle possibili risposte. Ma spesso la risposta più efficace è una domanda migliore, una domanda che ci permette di riformulare il problema e scardinare i nostri limiti e pregiudizi. In questo post vedremo come riuscirci in 3 passaggi.
Qualche tempo fa, abbiamo dedicato un post al potere della giusta domanda in una headline, ricordi?
In questo post voglio soffermarmi ancora sulle domande: non ti parlerò della loro efficacia all’interno dei titoli di una campagna pubblicitaria o di un blog post, ma della loro potenza nelle fasi di brainstorming. Sì, perché quando in ufficio emerge un problema, piccolo o grande, la maggior parte delle volte ci arrovelliamo il cervello per trovare risposte a quel quesito. Ma siamo sicuri che stiamo risolvendo il problema giusto?
Secondo una teoria di cui ti parlerò in questo articolo, diffondere in azienda l’abitudine di basare i brainstorming sulle domande, anziché sulle risposte, aiuta a superare i pregiudizi cognitivi e allarga la prospettiva delle persone coinvolte. Per spiegarti cosa intendo, ti farò un esempio classico tratto dal testo di Russell Ackoff Systems, organizations and interdisciplinary research, scritto nientepopodimenoche negli anni Sessanta.
Il proprietario di un edificio di uffici riceve molte lamentele legate a un problema: l’ascensore dell’edificio è vecchio e troppo lento e ogni volta i dipendenti degli uffici devono aspettare a lungo prima che arrivi al piano.
Di fronte a questo incorniciamento del problema (l’ascensore è troppo lento), le soluzioni possono essere diverse:
- installare un nuovo ascensore;
- sostituire il motore;
- aggiornare l’algoritmo che regola il funzionamento dell’ascensore.
Il brainstorming basato sulle domande
Capita a tutti, quasi quotidianamente, di partecipare a riunioni in cui un leader (oppure un cliente) presenta un problema, spende molte parole per descriverlo, illustra le soluzioni adottate in passato che non hanno sortito benefici e cerca quindi delle risposte, delle possibili soluzioni che possano farlo uscire da un tunnel-lel-lel-lel. Si tratta del classico brainstorming che si concentra sulla formulazione di risposte. Quali sono i limiti di questo approccio? Intanto, come per l’esempio dell’ascensore, si dà per scontato che il problema sia stato formulato correttamente. Si parte da un assunto che invece, in molti casi, dovrebbe essere messo in discussione per ampliare l’orizzonte delle possibili soluzioni. Come client director di Pennamontata, mi capita quasi ogni giorno di parlare con prospect che si sono fatti un’idea molto chiara del problema (es.: “Il mio ecommerce non vende perché la concorrenza è troppo alta”), si sono assuefatti a quell’idea e non prendono in considerazione altre angolature. In secondo luogo, le riunioni in azienda di questo tipo generano delle dinamiche di gruppo controproducenti: la pigrizia sociale, cioè la tendenza a uniformarsi all’opinione di altri per risparmiare energia, e l’ansia sociale, il timore del giudizio degli altri sulle proprie idee. Come superare questa impasse? Suscitando nelle persone quella tendenza naturale a formulare domande, che tutti avevamo nella tenera età e che poi, con il passare del tempo e la sedimentazione di comportamenti standardizzati, abbiamo perso. Invitare le persone a formulare domande invece può sbloccarne la potenza creativa e aprire la strada a nuove soluzioni più efficaci.La prima fase: individua un tema di cui discutere
Il primo step consiste nell’identificazione del problema, che non necessariamente deve essere una criticità, ma può essere anche un’opportunità che ritieni interessante. Una volta individuato, chiedi ai tuoi colleghi o collaboratori di aiutarti a esplorare il problema. Qui c’è una prima regola che Gregersen invita a rispettare: la sintesi. Sintetizzare l’esposizione del problema aiuta a evitare preamboli, quindi incorniciamenti soggettivi del problema, pregiudizi su di esso. Anche le domande che verranno formulate durante il brainstorming dovranno essere sintetiche e secche, senza alcuna introduzione giustificativa. In questa prima fase sono importanti anche 2 pratiche che Thomas W. Wedellsborg cita tra le 7 buone prassi che aiutano nel processo di reframing:- 1. Il metodo deve essere compreso e accettato da tutti. Se è la prima volta che vi avventurate in un brainstorming basato sulle domande, dovrai far capire il suo valore agli altri, dovrai legittimarlo con degli esempi positivi, dovrai far uscire i tuoi interlocutori dalla comfort zone in cui si tenta di dare risposte sensate a un problema dato per assunto.
- 2. La seconda buona prassi è quella di coinvolgere nella discussione degli outsider, delle persone esterne che non lavorano a stretto contatto con te ogni giorno. Potrebbero essere persone che appartengono a un reparto del tutto staccato dal tuo, oppure – nel caso di un cliente – un membro della sua segreteria. Questo ti permetterà di avere il punto di vista di persone che non sono a digiuno del contesto in cui ti muovi, ma al contempo non hanno un background e una sedimentazione di preconcetti che, tuo malgrado, hai accumulato nel tempo. Sono anche persone che hanno meno interessi diretti nella faccenda che stai affrontando e quindi possono sentirsi più libere di esprimere domande anche scomode.
La seconda fase: genera una tempesta di domande
Armati di un portatile o anche di un registratore e inizia la sessione di brainstorming. Le persone avranno a disposizione 4 minuti e il gruppo dovrà fare almeno 15 domande in questo arco temporale. Le risposte non sono ammesse. Solo domande, che dovranno essere messe tutte – e dico tutte – nero su bianco o registrate e poi trascritte. Perché 4 minuti? Perché è un esercizio faticoso e il cervello, lo sappiamo, è pigro. Meglio quindi fare più sessioni di 4 minuti ciascuna, invece che una sessione più lunga. Quali sono le domande migliori, quelle che producono innovazione, che sprigionano creatività nel risolvere un problema? Secondo l’esperienza raccolta sul campo da Gregersen, sono sicuramente quelle aperte, brevi e semplici. Anche le domande descrittive sono utili (Cosa funziona? Cosa non funziona?) soprattutto se dopo di esse arrivano domande speculative (Cosa succederebbe se? Perché no?). Sono da evitare invece le domande tossiche, quelle poste con aggressività e che puntano il dito contro l’operato di qualcuno.La terza fase: identifica le nuove domande che ridefiniscono il problema
La terza e ultima fase consiste nell’analizzare i risultati del brainstoming, nell’interrogarsi sulle domande poste e sulle possibilità nuove che aprono per risolvere il problema. In questa fase, è importante considerare tutti gli output della riunione, soprattutto quelli che ci risultano scomodi. Puoi usare il metodo dei 5 perché elaborato da Sakichi Toyoda, fondatore della Toyota. Sviluppa la domanda in una sequenza logica, chiedendoti il perché in 5 passaggi. Ti faccio un esempio: Problema: il nostro ecommerce non vende. Domanda iniziale emersa dal brainstoming:- 1. Il nostro ecommerce è davvero interessante per i suoi utenti?
- 2. In che modo il nostro ecommerce risponde alle esigenze/interessi dei suoi utenti?
- 3. Quali sono le esigenze reali dei suoi utenti?
- 4. Quali dati abbiamo sui bisogni e sugli interessi dei nostri utenti?
- 5. Con quali strumenti stiamo raccogliendo questi dati?