Questo articolo è una chiamata alle penne e al buon senso. Parleremo di una mostruosità contro cui serrare i ranghi e muoversi coesi. Come? Combattendola tutti i santi giorni con il nostro lavoro.
Parliamo di pubblicità sessista e dei suoi tipici ingredienti:
- doppi sensi a sfondo sessuale da far accapponare la pelle;
- stereotipi di genere della peggior specie;
- corpi oggettificati – per lo più femminili.*
Gli esempi sono superflui ma, se avete deciso di fare un’incursione nell’horror pubblicitario, basta fare una veloce ricerca in rete per trovarne a bizzeffe. Se, invece, avete ben presente di cosa stiamo parlando, continuate a leggere.
Perché esiste ancora la comunicazione sessista?
Vi sarà capitato di vedere annunci pubblicitari degli anni ’50 con donne e uomini rappresentati rispettivamente nei ruoli di succube/casalinghe preoccupate solo dalla cena o dal bucato e padri di famiglia/padroni del mondo che portano il pane a casa. Oggi – si spera – non verrebbe in mente a nessuno di proporre annunci di questo tipo ma gli stereotipi di genere ci tengono ancora compagnia.
In un contesto socio-culturale così diverso, ci sono ancora in giro tante pubblicità e comunicazioni sessiste ovvero contenuti in cui le persone vengono raccontate tramite cliché legati al genere o sessualizzate. Come mai? Alcune risposte che possiamo darci:
- ci sono aziende e brand che lanciano campagne pubblicitarie foriere di stereotipi di genere senza accorgersene;
- è ancora vivo (incredibilmente) il principio del “giusto o sbagliato, l’importante è che se ne parli”;
- c’è chi si fa guidare in cotanto orrore dal principio secondo cui il sesso fa vendere.
Guardiamo da vicino tutte e 3 queste situazioni.
Se non te ne accorgi, hai un grosso problema
Ci sono campagne, che parlano di donne e di uomini, in apparenza innocue. Eppure lo stereotipo è proprio lì, annidato tra una riga e l’altra. A volte, paradossalmente, lo incontriamo persino nelle campagne in cui c’è l’intenzione di ribaltare un cliché; e spesso – molto spesso – quando si sceglie di puntare sull’ironia.
Ecco perché il lavoro creativo non dovrebbe mai basarsi solo sul colpo di genio o su quell’idea che ci fa tanto ridere, ma deve essere calato nella realtà e guardato da tanti punti di vista (e da tanti occhi diversi). Fermo restando che lo scivolone può capitare a chiunque – soprattutto quando si toccano temi complessi –, di fronte ai fail che di tanto in tanto arrivano sotto le luci della ribalta mi chiedo spesso: “Possibile che nessuno, all’interno del team che ha lavorato alla campagna, abbia mosso un’obiezione su questo concept/su questo copy/su questo visual?”.
Ecco cosa immagino possa succedere:
- le obiezioni vengono ignorate o risolte con argomentazioni fallaci;
- l’intero team si concentra solo sull’esecuzione, dimenticando tutto il resto;
- è il cliente stesso a forzare la mano e richiedere (imporre?) certi soggetti.
In tutti questi casi, il problema è bello grosso e richiede una profonda revisione del metodo di lavoro. Su questo argomento bisognerebbe scrivere un saggio. Mentre aspettiamo che qualcuno lo faccia, possiamo porci alcune domande quando la nostra creatività interseca temi come il ruolo e la rappresentazione delle donne e degli uomini. Per esempio:
- questa comunicazione rispetta la dignità di tutte e tutti?
- questa comunicazione rischia di poter essere fraintesa? Se sì, perché?
“Purché se ne parli”. Aiuto!
Sono sincera, su questo argomento vorrei solo stendere un velo pietoso ma cercherò di vincere la tentazione e argomentare ragionevolmente. Dunque, il “purché se ne parli” è il principio secondo il quale costruiamo un messaggio utilizzando determinati espedienti – per esempio un testo o un’immagine basati su un doppio senso a sfondo sessuale – allo scopo di provocare una reazione di massa da parte del pubblico e dare visibilità al brand. Altre versioni dello stesso concetto: “ogni pubblicità è buona pubblicità” oppure “non c’è migliore pubblicità della cattiva pubblicità”.
Questa tecnica raggiunge i risultati sperati? Spesso sì. Ma correggetemi se sbaglio:
- nella maggior parte dei casi il clamore dura una manciata di giorni, dopodiché l’annuncio cade nel dimenticatoio;
- spesso non è l’azienda pubblicizzata a restare impressa ma la creatività in sé;
- quando la trovata pubblicitaria del momento riesce nell’intento di far ricordare anche il brand, il danno d’immagine potrebbe costare caro;
- non è affatto detto che una creatività che genera buzz generi anche ROI.
Infine, permettetemi di dire questo: se l’unico mezzo per promuovere un brand in modo dirompente è ricorrere a una battutaccia o a un corpo nudo, allora quel brand ha un enorme, gigantesco problema di business.
Passiamo oltre, che ne dite?
“Il sesso fa vendere”. Non è vero.
A settembre 2020 la rivista scientifica Sex Roles ha pubblicato lo studio di un team di ricercatrici e ricercatori dell’Università di Padova e Trieste: “Does Sex Really Sell? Paradoxical Effects of Sexualization in Advertising on Product Attractiveness and Purchase Intentions”. Per studiare gli effetti degli annunci sessualizzati, consumatrici e consumatori sono stati esposti ad annunci con modelli femminili e maschili e ad annunci neutri.
I risultati indicano che – udite, udite! – il sesso non vende. In particolare, la ricerca è arrivata a queste conclusioni:
- l’uso della sessualizzazione femminile nella pubblicità ha effetti controproducenti sul pubblico femminile – perché abbassa l’attrattività del prodotto e l’intenzione di acquisto e genera emozioni negative – e non è utile ad attirare gli uomini e ad aumentare le loro intenzioni d’acquisto;
- l’uso della sessualizzazione maschile è controproducente sia per le donne che per gli uomini.
Al di là di questi dati, se i vostri valori vi tengono a mille miglia di distanza dalla comunicazione sessista, cosa potete – possiamo – fare per annientarla?
Tre pratiche per combattere la comunicazione sessista
1. Segnalare annunci sessisti allo IAP, l’Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria, che si occupa di fare verifiche e, in caso di violazione del Codice di Autodisciplina, lavora affinché siano rimossi.
2. Informarsi sull’argomento e parlarne in agenzia. Per cominciare, qui ti segnaliamo una presentazione di Hella Network** sugli stereotipi di genere: “Uscire dagli stereotipi per liberare le idee. E non solo loro.”
3. Usare il cervello. Non solo il nostro. Confrontiamoci con quante più teste possibili. Lo stereotipo è sempre in agguato. Quante brutte idee ha partorito l’8 marzo!
Vi lascio con una riflessione che è anche un auspicio per il mondo della comunicazione e per la società. E se vi va di aggiungere qualcosa sul tema, di segnalare risorse utili o semplicemente di dire la vostra, vi aspetto nei commenti.
*“Dal 2006 al 2017, le donne, rispetto agli uomini, avevano una probabilità sei volte maggiore di essere mostrate in abiti rivelatori (12,6% rispetto al 2,1%) e tre volte maggiore di essere visivamente (6,8% rispetto al 2%) e verbalmente oggettificate (1,6% rispetto allo 0,5%); e più del doppio delle probabilità di essere mostrate in uno stato di nudità parziale (7,9% rispetto al 3,3%).” Fonte: Geena Davis Institute on Gender in Media. “La pubblicità ci racconta che le donne sono sessualmente molto più disponibili degli uomini. Donne sessualmente disponibili: 12,9%/Uomini sessualmente disponibili: 1,7% […] Quanto è stato investito ‘solo’ nel mese di dicembre 2013 per veicolare questo tipo di essere umano? Donne disponibili sessualmente: 10.894.274 euro. Uomini disponibili sessualmente: 487.337 euro.” Fonte: “Come la pubblicità racconta le donne e gli uomini, in Italia”. Indagine dell’Art Directors Club Italiano in collaborazione con Università Alma Mater di Bologna e Nielsen Italia.
**Hella è un network formato da professioniste della comunicazione che ha tra i suoi obiettivi la rappresentazione delle persone libera dagli stereotipi.