Comunicazione sociale: case history di Nike

Comunicazione sociale: case history di Nike

Cosa spinge un brand ad avventurarsi in una rischiosa campagna di comunicazione sociale? Quando è uscita l’ultima campagna Nike me lo sono chiesta anche io. Su Twitter guardavo i video delle persone che bruciavano le scarpe del brand e, da cuor di leone quale sono, mi chiedevo “ma chi ve l’ha fatto fare?”. Era solo questione di tempo e poi avrei trovato risposta a questa domanda. La risposta è qui, in questo articolo, quindi se ti va di scoprirla leggilo.

Le storie dei brand che si schierano mi hanno sempre affascinato molto, specie quelle che si trasformano in epica e raccontano di eroi, grandi imprese e coraggio. Nelle ultime settimane, ho seguito con passione e curiosità la controversa campagna Nike. Da quando è uscita ne sono successe di tutti i colori. Qui voglio prenderla come caso studio e ragionare sul perché sono sempre di più i brand che prendono una posizione su temi sociali, nonostante si tratti di un’operazione delicata e rischiosa. Anzi, forse è il caso di iniziare proprio da qui.

Comunicazione sociale, schierarsi conviene?

Partiamo da una ricerca condotta da Nielsen in cui mi sono imbattuta di recente. A dire il vero questa ricerca si basa su dati raccolti nel 2016, ma il suo significato non ha perso valore nel tempo. Il sondaggio, che coinvolge oltre 31.000 persone provenienti da 63 Paesi diversi, indaga come i consumatori accolgono le pubblicità che sposano cause sociali legate alla diversità. Diversità di qualsiasi tipo: culturale, etnica, fisica, di genere, di orientamento sessuale…

Cosa ha dimostrato? Che la maggior parte delle persone vorrebbe vedere aumentate le comunicazioni di tipo inclusivo, che mostrano la diversità in ogni sua forma. Ben il 68% degli intervistati supporta quelle aziende che si fanno portavoce di cause sociali. Mentre, secondo i dati del Diversity Brand Index divulgati durante il Diversity Brand Award: l’80% delle persone predilige e sceglie brand inclusivi.

Su un dato, però, vorrei riflettere: l’indagine di Nielsen mostra che le generazioni più giovani sono quelle più sensibili ai temi sociali. In particolare, sono i giovanissimi della generazione Z che dichiarano (per il 43%) che nelle pubblicità vorrebbero vedere più persone con background, culture, etnie e orientamento sessuale diversi (e pensare che la media europea è del 32%).

Quindi, vale la pena abbracciare una causa sociale? Alla domanda hanno già risposto i numeri. “Just do it”, direbbe Nike. Così come fanno Coca-Cola, Unilever-Dove, Diesel, Ikea, Hilfiger e Benetton, che sono solo alcuni dei tantissimi brand che puntano su una comunicazione sociale per stabilire una connessione emotiva con i consumatori.

Certo, sotto questa prospettiva, anche la campagna sociale più toccante smette di commuoverci e viene vista per quello che è: un progetto architettato a tavolino che ha, come principale obiettivo, quello di far breccia nel cuore dei consumatori e assicurarsi la loro fedeltà. Nello specifico, quella della generazione Z, i consumatori di domani molto più attenti alle cause sociali. Condannabile? A ognuno la sua idea, l’importante è non dimenticare che l’obiettivo delle aziende è, e sarà sempre, il profitto, quindi non c’è nulla di cui stupirsi.

Qui ti faccio vedere come è stata accolta la recente campagna Nike e cosa è successo dopo il lancio.

Un esempio di comunicazione sociale – il caso Nike

Colin Kaepernick è il volto scelto da Nike per la campagna “Dream Crazy”, che celebra i 30 anni del payoff “Just do it”. Il lancio è stato preannunciato da questa immagine, che ritrae il volto di Kaepernick accompagnato dalla frase “Credi in qualcosa, anche se significa sacrificare tutto quanto”.

case history nike 2018

Per capire il significato e il potenziale esplosivo della campagna è doveroso ripercorrere alcuni fatti. Colin Kaepernick è un quarterback afroamericano, ex stella vincente dei San Francisco 49ers. Nel 2016, durante la National Football League, l’atleta fece discutere perché si inginocchiò durante l’inno americano. Un gesto simbolico, un segno di protesta contro il razzismo della polizia americana. Un gesto coraggioso, perché chi comanda, nel football americano, è bianco e conservatore. La reazione di Trump non si fece attendere e Colin Kaepernick, uno dei giocatori di football più forti, è senza contratto da marzo 2017.

La risposta mediatica alla campagna, come ci si poteva aspettare, è stata forte. Da una parte ci sono i sostenitori della causa, come LeBron James e Serena Williams (entrambi li vediamo nel video della campagna), che sui social hanno espresso la loro solidarietà a Nike.

Dall’altra la campagna di boicottaggio dei prodotti del brand con l’hashtag #BoycottNike, in segno di supporto al presidente Trump.

Quanto è costata questa campagna? Oltre ad attirarsi le ire dei sostenitori del presidente, nei giorni successivi alla sua uscita, Nike ha ceduto a Wall Street oltre il 3%. Ma questo solo in un primo momento. Il 21 settembre, qualche settimana dopo la pubblicazione dei video con le scarpe Nike che bruciavano, la CBS News trasmetteva questi dati: l’azienda guadagna 6 miliardi di dollari di capitalizzazione di mercato, corrispondente a un bel 5% di rialzo azionario.

Ciò che a tanti poteva sembrare un suicidio pubblico, si è rivelata invece un’occasione per fortificare il legame della marca con i consumatori. Insomma, direi che la campagna Nike si spiega con la sua stessa headline: “Don’t ask if your dreams are crazy. Ask if they’re crazy enough”.

Piccola avvertenza prima di salutarti: sposare una causa sociale non è per tutti i brand, non a caso solo i “grandi” ci si avventurano. Serve un’accurata conoscenza del proprio target e dei suoi comportamenti d’acquisto, serve un’azienda solida capace di reggere l’urto di una contro-campagna, serve consistenza valoriale tra il brand e la posizione politica sostenuta. Serve coraggio da vendere!

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