Hai presente la campana tibetana? Bene, a casa mia ne è approdata una. Per chi non lo sapesse, si tratta di uno strumento musicale legato a pratiche di meditazione. Ma per me è solo un oggetto infernale che emette un suono altrettanto infernale, una sorta di acuto fischio rompi-timpano.
Ora, hai presente le ripetizioni? Be’, sì che ce le hai presenti, anche perché, con tutta probabilità, le eviti come la peste.
Parlo delle ripetizioni all’interno dei tuoi testi. Parole che si ripetono, come “anche”, “molto”, “solo”, “che”. Costruzioni sintattiche che si ripetono, rendendo la lettura soporifera. Sono i casi in cui un buon lavoro di editing rimette tutto in ordine. Ci sono, poi, le ripetizioni “buone”. Sono quelle volute, che puoi utilizzare per raggiungere vari scopi a livello di stile e comunicazione.
Ti starai chiedendo cosa c’entrano le campane tibetane con le ripetizioni. Ho formulato una teoria tutta mia sulle prime, e cioè che, finché non si raggiunge un perfetto equilibrio interiore mentre le si suona, alle orecchie non arriverà altro che il suono infernale di cui sopra. La stessa cosa succede con le ripetizioni: se non sono controllate suonano male, creano una fastidiosa ridondanza. Se invece sono ben studiate possono dar vita a effetti sorprendenti.
Dice bene l’autore di questo post:
Come la maggior parte dei trucchi di scrittura, anche la ripetizione è tutta una questione di equilibrio e contesto.
Allora, facciamo prima di tutto un ripassino di figure retoriche e vediamo in quali modi possiamo utilizzare lo strumento della ripetizione a nostro vantaggio.
Le forme e gli effetti della ripetizione
Lungi dal volerti propinare un trattato di retorica, vorrei passare in rassegna alcune figure retoriche costruite intorno alla ripetizione.
Epanalessi
L’epanalessi è una ripetizione ravvicinata di una o più parole all’inizio, nel mezzo o alla fine di una frase (schemi: xx… oppure …xx… oppure …xx). Immaginiamo di dover trovare il titolo di un post su, chessò, come preparare la pizza. Partiamo da una struttura base, della serie “How to”: “Come preparare una buona pizza”.
Se volessi dare a questo titolo un pizzico in più di verve e un tono più amichevole, potrei utilizzare una ripetizione e scrivere “Come preparare una pizza buona buona”.
Ovviamente, questo è solo un esempio: l’epanalessi può avere altri risvolti, a seconda del come la si usa e del contesto.
Anafora ed epifora
Quando si menziona l’anafora (schema: x… |x…), si cita sempre Dante, hai notato? Non farò eccezione, ché vale sempre la pena rileggere il Sommo Poeta.
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e ’l modo ancor m’offende.
Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona.
Amor condusse noi ad una morte.
Caina attende chi a vita ci spense.”
Vediamo però un’applicazione dell’anafora in un testo che è più probabile possa capitarci di scrivere, come una pagina di un sito aziendale. Si tratta di una pagina del sito Pennamontata, dove abbiamo scelto di ripetere più volte un’espressione in cui compare una parola emozionale come “bisogno” associata alla parola “copywriter”. L’anafora qui ci ha aiutati a creare un senso di urgenza.
L’epifora, come sappiamo, si ha quando la ripetizione si trova in posizione di chiusura (schema: …x| …x). Nel testo qui sopra avremmo potuto utilizzarla così: “I tuoi testi non ti fanno vendere? Hai bisogno di un copywriter/Non hai tempo per gestire blog e social? Hai bisogno di un copywriter”. E via dicendo. Vedi, però, come cambia il tono?
Epanadiplosi e anadiplosi
L’epanadiplosi e l’anadiplosi prevedono rispettivamente la ripetizione di una o più parole all’inizio e alla fine di una frase (schema: x… x); alla fine di una proposizione e all’inizio della successiva (schema: …x|x…). Ti faccio un esempio in cui compaiono entrambe: “Un refuso, non avrei pensato di trovarlo nel mio testo, un testo riletto cento volte in cui salta fuori un refuso.” In questo caso, le ripetizioni mi hanno permesso di creare enfasi e di dare risalto a una parola importante della frase.
Tutte le figure retoriche che abbiamo visto possono essere utilizzate per:
- conferire al testo un certo ritmo;
- ottenere un determinato tono;
- mettere l’accento su una parola o un’espressione e sul concetto a esse legato.
Le ripetizioni non sono solo una questione di forma; con i loro effetti investono tutto il contenuto e, ciò che più ci interessa, agiscono sulla sua ricezione. Di seguito ho raccolto alcuni casi in cui la ripetizione ha reso il testo e il suo messaggio memorabili e persuasivi.
La ripetizione che persuade. Da Martin Luther King a Obama
C’è anche lo zampino della ripetizione se il famoso discorso di Martin Luther King “I have a dream” (1963, Lincoln Memorial, Washington, D.C.) è diventato un simbolo, oltre che un grande esempio di retorica. Dopo aver analizzato la drammatica situazione sociale in cui si trovavano a vivere gli afroamericani, arriva la parola “sogno” ad aprire un varco di luce.
Arriva timida nella frase “E anche se dobbiamo affrontare le difficoltà di oggi e di domani, io continuo ad avere un sogno.” È solo la prima di 11 occorrenze ed è subito ripetuta altre 2 volte: “Un sogno che ha radici profonde nel sogno americano.” Per 6 volte consecutive, poi, l’espressione “Ho un sogno” apre i “paragrafi” a seguire. Nel mezzo il reverendo ripete per 2 volte “Oggi ho un sogno”.
La ripetizione qui serve a veicolare il messaggio di speranza e a far sì che resti impresso nel pubblico.
Nel 1961, John F. Kennedy pronunciò il discorso d’insediamento alla Casa Bianca, e anche qui la ripetizione ha giocato un ruolo cruciale. Utilizzata in vari modi nel testo, è soprattutto nella parte finale che contribuisce a creare un messaggio memorabile con un effetto dirompente:
Concittadini del mondo, non chiedete cosa l’America può fare per voi, ma cosa possiamo fare, insieme, per la libertà dell’uomo.
Infine, che siate cittadini americani o cittadini del mondo, chiedete a noi gli stessi livelli elevati di forza e di sacrificio che noi chiediamo a voi.”
Facciamo un salto nel tempo e arriviamo al 4 novembre 2008, giorno in cui Barack Obama è stato eletto presidente degli Stati Uniti. Nella parte finale del discorso post-vittoria, il motto della sua campagna elettorale “Yes, we can” è risuonato per ben 7 volte, a chiudere altrettanti capoversi.
Lo slogan, già d’impatto, attraverso la ripetizione guadagna sempre più potenza, e sempre più potenza guadagna il messaggio.
Ma allora, perché siamo restii alla ripetizione?
Se è proprio vero che repetita iuvant perché siamo così spaventati dalla ripetizione? Mi sembra interessante il punto di vista di Muriel Zimmerman, docente dell’Università della California:
We acquire cultural inhibitions about repeating.
L’affermazione appare in un articolo del 1983: “The Use of Repetition in Technical Communication”. A supporto della sua tesi Zimmerman scrive: “Chi è ben educato non ripete – dice cose come ‘con il rischio di ripetermi’. […] La ripetizione deliberata entra in conflitto con la formazione sociale e culturale e si scontra anche con le regole che abbiamo imparato sulla scrittura. […] Gli studenti di scrittura sono esortati a possedere un vocabolario vario e interessante, a cercare nuovi modi per nominare ed esprimersi.”
Ora, non so se riuscirò mai a trovare l’equilibrio interiore che suppongo serva per suonare (e sopportare) la campana tibetana. Ma per quel che riguarda le ripetizioni, cercherò di liberarmi dalle inibizioni culturali ed esplorarne gli effetti. Con equilibrio, s’intende.
E se questo articolo ti ha fatto riflettere sull’argomento “ripetizioni”, lasciami pure le tue considerazioni nei commenti.