Di zucconi, lì fuori – o forse dovrei dire qui dentro – ce ne sono un’infinità. C’è lo zuccone che risponde malamente ai commenti della sua fanpage, lo zuccone che “dove c’è refuso, c’è casa”, lo zuccone che dà contro al povero stagista. Ah, e sia chiaro che questi zucconi non girano solo nella settimana di Halloween.
I mostri del web sono tra di noi sempre. A volte i mostri del web siamo proprio noi. Basta un attimo per generare una mostruosità. Basta dimenticarsi di controllare meglio una fonte, di rispettare un cicinin di più l’altro anche nei giorni “never a joy”, di rileggere un testo prima di pubblicarlo.
Nel giorno di Halloween voglio dedicare questo post un po’ a tutti noi mostriciattoli del web, come memento, incentivo, speranza.
Il fantasma del check
Controllare sempre prima di rispondere. Controllare sempre le fonti. Controllare non è un optional: è un dovere di tutti noi. Anche io sono caduta nel mancato check. Risultato? Sono morta di vergogna, ho chiesto scusa e ho imparato la lezione.
Se si controllasse meglio, si sbaglierebbe meno. Ma siccome ciò non avviene, uno dei mostri del web è sempre in agguato ed è “il fantasma del check”.
La pagina Social Media Epic Fails, che trovo utilissima per chi si occupa di comunicazione, stavolta cade lei stessa in fallo: pubblica una pubblicità in lingua tedesca relegandola al girone della “monnezza”. Subito c’è chi risponde e fa presente che, per il tipo di brand e di prodotto, forse questo adv potrebbe non essere poi così tanto sbagliato.
Morale della favola: un controllino in più e sarebbe passata la paura. Ma il fantasma del (mancato) check aleggia sempre tra di noi, c’è poco da fare.
L’hashtag mannaro
Dopo il fantasma del check passiamo a un altro mostro del web: l’hashtag mannaro. Mannaro, sì, perché da semplice e innocuo cancelletto può trasformarsi in un portale dalle mandibole tritura-comunicazione. Attenti, amici miei: non fidatevi degli hashtag.
Non fidatevi degli hashtag, soprattutto se non sapete fargli il pelo e il contro(l)pelo e se non li considerate dei piccoli test di Rorschach.
Ad esempio, il #tutogliioincludo della CGIL può essere a tutti gli effetti considerato un hashtag mannaro. A vederlo sembrerebbe un cucciolo; provate a farlo scorrazzare nel sottobosco del web e ancor prima di mezzanotte lo vedrete trasformarsi in un mostro.
Se l’hashtag scelto dalla CGIL poteva alludere a qualcosa, quello scelto dal PR team della cantante britannica Susan Boyle ulula al fail. L’hashtag mannaro stavolta è #Susanalbumparty: Susan Album Party (e non Susan Anal Party).
La vicenda risale a ben 2 anni fa ma, come potete vedere, su Twitter ancora si cinguetta con questo hashtag.
The hashtag #susanalbumparty still cracks me up … Im so immature!!
— Julie Robinson (@JooleighR) 22 Ottobre 2014
Remember that awkward moment when Su-Bo hosted the #susanalbumparty and a few people thought she’d embarrassingly released an album.
— James Martin (@Pundamentalism) 27 Luglio 2014
#susanalbumparty never gets old
— Nicholas Bell (@imnickbell) 28 Ottobre 2014
I’m going to dedicate my 4010th tweet to Susan Boyles PR team for my favourite hash tag in the world ever #susanalbumparty
— Sarcy Bint (@Yippieeeeee) 14 Ottobre 2013
Sulla scia (e che scia) di #tutogliioincludo e #Susanalbumparty c’è un altro hashtag: #pharrelshat (Pharrel’s Hat. E non Pharrel Shat).
Questo hashtag prende vita dopo i Grammy Awards di quest’anno, occasione in cui il celebre cantante Pharrel Williams indossa un cappello davvero particolare (leggi orrendo).
I read the #pharrellshat hashtag from the #GRAMMYs as ‘Pharell Shat’ and now im disappointed pic.twitter.com/K1HgmK9gRa
— Troye Sivan (@troyesivan) 27 Gennaio 2014
Per chi non conoscesse l’inglese, ecco cosa vuol dire “shat”.
Gli zombie e i mostri della SEO
Tra le più temibili creature del web ci sono quelle che definisco “gli zombie e i mostri della SEO”, falsi miti e credenze che stentano a morire e che spuntano fuori da chissà dove. Di chi è la colpa?
- Dei professionisti che non si aggiornano, e divulgano così informazioni obsolete e sbagliate.
- Dei neofiti che seguono i professionisti di cui sopra, e divulgano a loro volta informazioni errate.
- Di gente che prende un falso mito, lo erge a verità assoluta (sapendo che in realtà tale non è) e dice: “Io credo che sia X, mentre in giro si dice Y. Io ho seguito la regola X e ho fatto bene, quindi Y è una minchiata”. Così facendo queste persone vanno solo a dar linfa agli zombie della SEO.
A parlarci oggi di questa tipologia di mostruosità del web, il nostro sbenda-zombie, il nostro ammazza-vampiri, il solo, unico e inimitabile (soprattutto per il cognome) Valerio Notarfrancesco.
[valefalci]Valerio, quali sono secondo te i più temibili mostri web quando si parla di SEO? Quali sono quei falsi miti che stentano a morire?[/valefalci]
[valerio2]
Vale la pena fare una piccola premessa: ci stiamo avvicinando al 2 novembre, il giorno della Commemorazione dei defunti, ma siamo ancora lontanissimi dal giorno in cui commemoreremo la SEO che, anzi, non è mai stata così viva e così fondamentale per le aziende.
A far traballare questa forza vitale, però, ci sono mostri e zombie che turbano il tranquillo riposo di clienti e bravi SEO.
SEO Zombie 1
Google ha da poco ucciso – finalmente! – il fuorviante e mai utile indicatore pubblico del page rank, la mostruosa barretta verde.
Bene, sembra che alcuni SEO stregoni vogliano far tornare dal regno dei morti il PR, creando dei veri e propri SEO zombie.
Costoro, spaesati da una SEO senza un indicatore numerico che dimostri il valore del loro lavoro, stanno promuovendo i più fantasiosi indici, dal page rank open source fino ai noti (per altri buoni motivi) MozRank, TrustRank, Trust Flow, etc.
Solo Google conosceva (e conosce ancora) il vero page rank di ogni singola url, e il valore di una pagina o il valore del lavoro di un SEO non possono essere quantificati da un indicatore inventato di sana pianta.
SEO Zombie 2 e 3
TF-IDF e LDA. Due cugini SEO zombie che si risvegliano spesso.
In realtà, la famiglia di zombie a cui appartengono questi modelli matematici di analisi del testo può annoverare diversi altri componenti. Ma in queste ultime settimane sono il TF-IDF e l’LDA i due SEO zombie che stanno terrorizzando il web.
Alcune persone hanno messo in giro la voce che questi modelli matematici sarebbero usati da Google e che, se applicati ai testi, darebbero un enorme vantaggio al ranking.
A ben vedere, basterebbe una semplice ricerca su Google per trovare l’origine e la storia di questi e di altri modelli matematici di analisi del testo e scoprire, anche velocemente, come l’ipotesi che Google utilizzi o in qualche modo premi i testi che fanno uso di questi algoritmi sia stata smentita più volte nel corso degli anni.
SEO Zombie 4
Il blog è morto e i blog che vediamo in giro sono solo dei morti che camminano.
No, non mi sto riferendo ai veri blog, quelli che hanno dietro un’idea e un vero piano editoriale, ma ai milioni e milioni di blog sparsi per il web creati con l’unico scopo di migliorare il ranking su Google.
A discolpa di questa categoria di zombie c’è da dire che Google stesso ha creato questi mostri e Google stesso sta prendendo provvedimenti per ucciderli.
SEO Mostro 1
Tra i più terrificanti mostri SEO non poteva mancare lei, la regina di tutti gli orrori SEO: la keyword density.
La keyword density non è mai stata presa in considerazione da Google, nemmeno nei primi anni di vita.
È un parametro che nemmeno il più scarso motore di ricerca prenderebbe in considerazione, figuriamoci uno complesso e sofisticato quanto Google.
Mi terrorizza davvero che ancora oggi se ne parli.
SEO Mostro 2
I backlink, da sempre segnali fondamentali per il ranking, sono purtroppo diventati anche un terribile mostro che può danneggiare il proprio sito a causa di azioni SEO criminali eseguite deliberatamente da alcuni competitor.
Anche in questo caso, è stato proprio Google a creare l’orrendo mostro che oggi viene indicato con il termine di “negative SEO”.
SEO Mostro 3
L’ultimo mostro da cui ti voglio mettere in guardia è una falsa concezione che sta dilagando da circa un anno a questa parte, ossia l’interpretazione inesatta che si sta dando alla semantica associata a Google.
In un mio precedente articolo pubblicato qui su Pennamontata ho definito questo mostro come “antropomorfizzazione di Google”.
L’orrore di fondo è voler pensare a Google come a un motore di ricerca umano, che ragiona come un umano, e controllato da essere umani.
Il termine “semantico” va invece considerato nella sua accezione geometrica e matematica e non in senso letterale.
No, Google non è un motore di ricerca dall’intelligenza umana, è una macchina, sofistica e affascinante, ma pur sempre una macchina.
Spero di non averti spaventato troppo e ridò la parola a Valentina.
[/valerio2]
Viaggio spettrale terminato
Il nostro viaggio spettrale in compagnia dei mostri del web finisce qui. Ma può anche non finire, se vorrai aiutarmi a trovare gli altri spettri intrappolati nella rete. Quindi dimmi: ti vengono in mente mostruosità da aggiungere alla lista?