Fatti i blog degli altri: 4 case history di business blogging

Fatti i blog degli altri: 4 case history di business blogging

Lunedì scorso, ho provato a scrivere una ricetta per un buon blog. Bada bene, non il blog perfetto: non ho le competenze, né sono nella posizione per potermi pronunciare a tal proposito. Ma se anche io fossi una guru della blogosfera (il termine “guru” lo uso solo per far arrabbiare Valerio ;-)), finirei per fare un grosso buco nell’acqua.

La blogosfera è un universo democraticissimo (che strano usare questa parola addirittura al superlativo): ognuno vi blogga quello che vuole, e ognuno reagisce o non reagisce condividendo o meno, commentando oppure no. Se si parla di blog aziendale, però, esistono pratiche da attuare e altre da evitare. Ci sono, poi, modi di fare business blogging su cui mi sembra arbitrario parlare in termini di “giusto o sbagliato”, perché si tratta semplicemente di scelte aziendali.

Ad ogni modo, molte aziende si sono malamente avventurate nella blogosfera, scambiandola per un altro medium attraverso cui darsi da fare col marketing. Non gli pareva vero: un mondo tutto nuovo da colonizzare con strategie pubblicitarie, per acquisire clienti. Da un certo punto di vista, dobbiamo pure ringraziarle queste aziende, perché hanno fatto un po’ da tester con i loro blog. “Grazie” alle loro esperienze, oggi abbiamo maggiori “informazioni” sul come si vive e come non si vive nella blogosfera.

Mi hanno fatto riflettere su diversi aspetti del rapporto tra aziende e blogosfera, le 4 case history che vi presento oggi, tratte dal libro Naked Conversations: How Blogs Are Changing the Way Businesses Talk with Customers, lo stesso a cui mi sono ispirata per l’articolo della scorsa settimana.

Sconsiglio ai blogger più sensibili di proseguire nella lettura del presente post, perché si parlerà anche di casi di business blogging così tragici che farebbero piangere una cipolla. I “braveblogger”, scrollino pure la pagina fino in fondo, possibilmente leggendola. 🙂

Blog che non hanno fatto primavera

Tra i blog che non hanno fatto la primavera di un’azienda, ma, anzi, hanno scatenato l’inv(/f)erno, troviamo quello della Mazda. La nota casa di produzione automobilistica giapponese s’inventò un finto blogger. Il signore in questione, un Mazda-addicted, postò un video in cui veniva ripreso uno stuntman alla guida di un’auto dell’azienda nipponica. In realtà quel video era il risultato di un rimpasto di spot televisivi che non avevano sortito l’effetto sperato: fare colpo sui giovani.

Il popolo del web ha sgamato subito l’inganno e l’ha urlato ai quattro venti. Di conseguenza, Mazda, non solo non ha raggiunto alcun risultato in termini di marketing, ma ha assestato un duro colpo al bene più prezioso di un’azienda: la propria credibilità.


La credibilità determina l’autorevolezza di un’azienda e della sua voce. Sul web i fail di un’azienda si diffondono velocemente.

Blog che non bloggano

Per gli autori di Naked Convesations, bloggare male significa anche non bloggare circa notizie e commenti negativi rivolti al proprio brand. È questo il caso dei blog dei dipendenti Hewlett-Packard, il colosso americano dell’informatica.

Correva l’anno 2005 quando HP licenziò la CEO Carly Fiorina per incompatibilità tra il suo modo di operare e i valori aziendali. Quest’incompatibilità è solo ipotizzabile, dato che in nessuno dei blog legati all’azienda comparve una sola riga dedicata all’argomento. Ma, a mio parere, va ancora bene (anche se licenziare la CEO di un’azienda non è un fatto insignificante come licenziare una copywriter junior come me – Valentina, ti prego: tienimi con te! –).

Accadde, però, che i blogger HP non mossero un tasto nemmeno quando Fiorina dichiarò pubblicamente che, durante la sua esperienza in HP, fu costretta ad assistere a uno spettacolo di streap-tease per compiacere un cliente (mah!).

Si parla molto di quanto sia importante rispondere alle critiche che ci vengono rivolte. A non farlo si richia di ledere la nostra immagine e di favorire indirettamente quella della concorrenza. Nel caso HP è addirittura un’ex dipendente a puntare il dito contro. Non sappiamo quali siano le ragioni che hanno spinto l’azienda a non controbattere attraverso il proprio blog. Secondo me, avrebbero potuto utilizzarlo per far suonare la propria campana nelle orecchie dei lettori e dei clienti. Il fatto che HP non abbia voluto bloggare a riguardo potrebbe essere passato come: “Fiorina dice il vero. Pensate ciò che volete, a noi poco importa!”.


Ignorare una notizia negativa riferita al proprio brand è come ignorare un arrosto che sta prendendo fuoco nel forno.

Bloogle… insomma, il blog di Google

Leggendo dell’esperienza di Google nella blogosfera, per poco non mi viene un blog al cuore. Vabbè, dài, la smetto con la mia melodrammaticità: sì, dormo tranquilla anche se il blog di Google è annoverato in Naked Conversations nel capitolo Bloggare male, al paragrafo Blogging forzato o egoistico. Premetto che il libro risale al 2006 e che gli autori, Robert Scoble e Shel Israel, scrivono: “Un senior manager di Google […] ci ha confidato a microfoni spenti che la policy dell’azienda sta per cambiare e che gli impiegati cominceranno presto a usare il blog senza limiti”. E continuano: “ma non sappiamo perché si sia rifiutato di consentirci di citare il suo nome”.

Il messaggio che passa nel libro, ad ogni modo, è questo: Google blogga male (attenzione ai fulmini di Larry Page!). Non essendo una lettrice del blog in questione, non mi pare onesto dare un giudizio.


Il sottotitolo del blog di Google è “Approfondimenti da Googler sui nostri prodotti, la tecnologia e la cultura di Google”.

No, non me ne lavo le mani alla Pilato style. Tutt’al più faccio lo scaricabarile 😉 dando la parola a Valerio Notarfrancesco. Qui di seguito uno scambio di mail tra me e lui proprio a proposito di questo caso:

[francesca]Buongiorno Valerio,
come stai? Tutto bene?

Volevo chiederti un parere. Sto scrivendo un post su alcune case history di business blogging. Sul libro che sto usando come riferimento (lo stesso del mio ultimo post), tra le aziende che hanno usato male il blog compare anche Google; ti riporto le parole degli autori. Tieni presente, comunque, che questo testo risale al 2006:

Gli ingegneri di Google e i manager di prodotto lo usano [il blog] per raccontare quanto stiano andando bene i progetti e i prodotti dell’azienda e a leggerlo si finirebbe col credere che Google non abbia mai avuto alcun insuccesso e che tutti in azienda vadano d’amore e d’accordo”.

Tu che ne pensi? Leggi il blog ufficiale di Google? Trovi che oggi le cose siano differenti rispetto al 2006?

Sono approdata anche sul blog di Matt Cutts. Immagino che sia la tua lettura preferita. 😉 Che ne pensi di quel blog?
Grazie mille,
Francesca[/francesca]

[valerio]

Ciao Francesca,
sto bene, o meglio c’è la febbre che mi sta corteggiando ma io le resisto. Poi sai, è una molto focosa. […]

Veniamo alle tue domande.
Io sono in disaccordo con gli autori del libro.
È logico che un’azienda voglia esporre il lato migliore di sé, infatti anche il blog alla fine è una vetrina, meno informale ma pur sempre uno spaccato per far vedere l’azienda.

Va bene anche raccontare le difficoltà dell’azienda, a patto che sia il pretesto per far vedere come la situazione è stata risolta brillantemente.

Questi di cui sopra sono aspetti legati alla comunicazione. Ci sono poi aspetti legati ad altri ambiti come quelli finanziari e legali.

Gli autori fanno l’esempio di Google. Bene. Dimenticano però che Google è un’azienda quotata in borsa e l’andamento delle azioni è legato anche alle aspettative, alle previsioni e allo stato d’animo degli investitori di borsa.

Se un’azienda quotata in borsa pubblica sul blog articoli in cui racconta quanto stiano andando male i progetti e i prodotti dell’azienda si scatenerebbe il panico in borsa e le azioni crollerebbero.

Poi chi risarcirebbe gli azionisti? I guru dei blog?

Un discorso analogo è quello legale. Se un dipendente o un alto dirigente scrive degli insuccessi dell’azienda sul suo blog, si potrebbe configurare il reato di turbativa dei mercati.

Come avrai capito non sono affatto d’accordo con gli autori del libro, sono quelli che io definisco “guru” contro cui mi ribello.

(Per insegnare alle aziende a usare il blog) mancano dei testi scritti sì da professionisti, ma professionisti che hanno vissuto davvero le dinamiche di un’azienda. Quelli [i “guru”] sono solo teorici che non si sono mai sporcati le mani nemmeno per scaccolarsi.[/valerio]


Tu che ne pensi della posizione di Valerio? Le sue osservazioni ti sembrano giuste? O sei un sostenitore delle “conversazioni nude” come Scoble e Isreael?

Blog che hanno imparato la lezione

Quella di esporsi o meno in un blog, secondo me, è una scelta dettata dalla politica aziendale, e per questo non possiamo ficcarci il naso più di tanto. Sarebbe un po’ come se venissi a casa tua e ti dicessi: “Ehi, ridipingi i muri di fucsia Pennamontata”. Ciò che va scritto su un blog, insomma, non può e non deve essere sottoposto a una “legislazione” comune.

La cosa più importante, a cui non ci si può sottrarre nella blogosfera, rimane sempre la stessa: essere onesti.

L’hanno imparato alla Vichy, l’azienda di prodotti per la cura del corpo che ebbe l’idea di creare un “personaggio da blog” fasullo, di nome Claire, allo scopo di sponsorizzare un nuovo prodotto. La povera Claire, però, fu subito riconosciuta come fake dagli internauti, e l’immagine della Vichy non ne uscì tanto bene (si mormora che ai capi siano venute un sacco di rughe da stress).

Tuttavia, l’azienda si comportò in modo intelligente: si scusò e chiuse il blog, con buona pace di Claire. Qualche tempo dopo, fu inaugurato un nuovo spazio blog, dove comparvero i volti della squadra Vichy e a cui collaborarono famose blogger, esperte del settore, e soprattutto vere. Blogger e clienti apprezzarono molto, e in poco tempo il blog divenne un luogo di conversazione, esattamente ciò che dovrebbe essere.

Pensate che l’azienda ne abbia ricavato solo parole, parole, parole? Anche no! Vichy ha conquistato la fiducia dei lettori e dei clienti, e ha imparato a conoscerli. Con quale altra azione di marketing si otterrebbe lo stesso risultato, con gli stessi tempi e lo stesso investimento?

Siamo usciti, alcuni più alcuni meno sconvolti, da questo post. Se conosci altre case history, negative o positive, parlane con me nei commenti. È lunedì mattina e ho proprio voglia di spettegolare un po’.